venerdì 24 dicembre 2010

laura silvestri-ascolti

ascolti


Ci sono quelle voci come per cento gole e bocche e feritoie e spiriti funesti, ventosi, che ne abbiano preso possesso e lì insediati, truci di vendetta scomposta, le torcono, le bocche, stirano gli orli e i labbri - e che io abbia rubato un paio di forbici ordigni obici flesh di quelle carni ancora tenere spazzate via alle pareti di stanze che sembrano scatole grigie, saltavano per aria frantumandosi e addio mia bella - fino a farli sfrigolare, per quel ronzante impulso a dire, a rovesciarmi addosso le notizie, dilagando invischiando ogni parte di me, un sibilo così materiale, corporeo, che quasi ne sento l'odore sanguigno, dei visceri ed organi che ha percorso, polmoni stomaci tubi pulsanti, sussurranti - addio che ci lasciano qua a marcire inumiditi alle radici, quasi ci strappano via il midollo, qué va, conciare spalmare strisciare da tazza di cesso al pavimento appena tiepido dai passi, e qui dove mi tengono regina degli ospizi regina degli orfani di guerra, avrei pertanto cavato gli occhi al mio bambino con quelle forbici di sarta raffinata, non ho bisogno - un confuso parlare di cose che mi entrano dentro, o già sono, annidate tra i tessuti e le vene?, e subito vogliono uscire, sfiatare - oh, non ho bisogno di rubarle io, l'imperatrice Alessandro che con acqua e inchiostro di voci vi posso tenere informati, e sfamati di mille e mille scricchiolii di gusci, testuggini che mi arrancano dalla riva alla parete di fondo sopportando rovesci frastuoni di uragani mentre avrebbero voluto far piano e non svegliare nessuno, non tagliate nessun filo o nastro di raso, io così pura, amabilmente bianca e regale...
E non un cane che voglia aiutarmi, aspirandole fuori come fosse un fumo nero e attossicante che va disperso per ridare fiato ai corpi imprigionati nella stanza che bruciava, ecco che torna, tornano chiassose solenni teatrali pulsando nella coscia, sulla spalla, viscide e sdrucciolevoli, fottutissime parvenze che si sporgono, le vedo, da quel pulpito sospeso e nebbioso, con piccoli squittii te lo annunciano, che loro sanno, hanno da dire, conoscono i segreti tuoi più sconci e te li spalancano imperiosi e... che lassù potessero esserci delle persone abbandonate, io per tre volte proprietario del mondo da quest'isola d'argento mento mondare, ah certo la pena non è lontana, per tutti quegli anni chiusi dentro che nemmeno il respiro poteva uscire sciocco sciancato incespicante, per dolori alla schiena, come ci fossero quintali di lastre di ferro sulla schiena - ingiurie, solo uno scherno lacerante, l'urlo animale delle ombre morte se ritrovano in un attimo un parlare imperfetto - e corsi là su quell'ultima scheggia di terra in alto sulla collina, dormono mordono terra radici e come vanno d'accordo con ogni fibra della vita neanche l'intera navata di saint peter fosse zeppa di pezzi da cinque fino al soffitto, insomma lasciate lassù a marcire per quanto davanti a una splendida tavola apparecchiata con succulenti venti e più bicchieri, grandi e piccoli
Ma un tempo non era così, ah no, ero il signore delle voci io, di dominio incontrastato, fin da quei giorni al liceo di Versailles che al vecchio preside di pronuncia perfetta rispondevo nel bretone aspro del padre, mio padre, di quando insoddisfatto mi batteva, giù nel buio della stalla, giurando che mi avrebbe cacciato. O quando l'elegante rollio della Sévigné, quelle sue monache grigie e bianche e panni di bucato buttati qua e là e uomini sepolti rigidi contro gli alberi, mi si rivoltavano in testa in russo o in polacco, sedimentando, per via di ricomposizioni e sospensioni...
Ed era solo l'inizio, poi presi su me l'ungherese, l'arabo, il cinese, e il croato, il georgiano... scorticato, denudato per meglio filtrare. Tacevo, finalmente, non facevo che ascoltare. Entro mezzogiorno il bollettino era là, sul tavolo dell'ufficio E, al Ministero... quei giorni, le mattine in cui sfociavano interminabili ore sibilanti. Lei non capiva, anche gli amici dopo un po' se ne andarono, troppo piccola la cucina piena di voci, un garbuglio di fili elettrici e la radio che sgolava, le cuffie mi chiudevano al mondo, Paul Armand la mia Jacqueline mi guardavano con occhi grandi, spalancati, non potevano credere, sapere che tutta la mia vita, la vita, era in quell'ascolto prolungato, dodici quindici ore, anche malato, anche nel pericolo. Ma io attraversavo mondi brucianti, pulsazioni, materia e carni e indicibile vibrare ricomposti nelle lingue degli umani, e quelle mi curavano, mi salvavano dal vuoto ma ancor più miracolosamente massaggiavano i miei piedi doloranti e gonfi o riscaldavano i bronchi infreddati. Mosca Pechino, l'incapacità di Alexandrov, lottare contro la ratificazione degli accordi di Parigi - Jacqueline se ne andò - il compagno Malenkov si riconosce inadeguato al compito che, comunica pertanto la sua volontà di dimissione - un tale miserabile ai suoi occhi ormai, in fondo non altro che un folle illetterato dagli abiti bucati, ancora sai di sterco, e tasche scucite, su sandali stridenti a calpestare i fili notte dopo notte, tra magnetofono radio gracidare di tasti e arrotare manopole, un anarchico pezzente che decifra l'accadico e il sumero e dietro lenti annebbiate di polvere e fumo scruta segni guizzanti sui muri di Scozia... vivevo di voci e di soffi, di ritmi, ma nessuno da Gallimard voleva i miei versi... per loro ero il barbone poliglotta, si accostavano ai muri vedendomi arrivare e io gli gridavo contento saltellando su una gamba Sono un fellagha, sono un fellagha, e i miei poemi indésirables li lasciavo ai tavolini dei caffè.
False parole? Menzogne spudorate... ah, che piacere quando una virgola soffiata nel microfono bastava a rivelarmi l'inganno. Io lo vedevo scorrere, quel fiume sotterraneo gorgogliante, la vera storia mi si svelava come all'emergere accecato dell'acqua dalla grotta cava... fu così che quel giorno d'ottobre scrissi la lettera, Avenue Foch, ai piccoli boia, Gestapo, Paris, ehi voi, sono l'ascoltatore pagato dal ministero, sono l'orecchio clandestino e veggente, cos'è quell'orrore, quel tumefatto ribollire che in lampi di secondi gonfia le voci dei vostri notiziari, le distorce, le vostre voci sempre così lucide e lisce come membra educate a una contratta rigida postura, scarnificate per troppa pulizia... è vero questo che sento?, questo borbogliare di vesciche infette che vi sfugge involontario e che mi parla di braccia e gambe spezzate, grandi fosse spalancate nei campi polacchi bagnati di nebbia, camion saturi di gas per le strade delle città russe... è tutto vero?
Mi presero, per settimane in qualche sotterraneo della capitale occupata. Mi lasciarono andare. Tornai nella stanza dei fili aggrovigliati, ricominciai gli ascolti, clandestino.
I bollettini? Non ce n'è traccia negli archivi, anzi gli archivi son scomparsi, come pure il Ministero, e gli amici di Canard, del Libertaire. Le febbrili trascrizioni, le parole tradotte e interpretate nel loro vero dire, l'ininterrotto racconto di anni di ascolti, non resta nulla... ma se anche me lo avessero annunciato, allora, non avrei potuto fermarmi. Era la potenza delle voci a tenermi, inchiodato, contratto nell'ascolto, un oscuro profeta dalle giacche bucate eppure visitato da parole-regine, inflessibili padrone delle mie veglie. Nel silenzio delle notti, da cento punti del pianeta, da terre raggelate, da deserti polverosi, i testi mi trovavano entrando nella stanza e nelle orecchie e io li decifravo, a volte ne scioglievo la doppiezza, ma sempre la voce debordava spaccando triturando le linee intessute del messaggio, sempre oltre lo schermo la voce scorreva come acque o terre in movimento. Voci senza corpo, voci insieme di parola e canto, enigmi sonanti per cui mi convincevo di aver attraversato le ere fino all'antico spazio bisbigliante in cui le cose ancora hanno da esser nominate... non da Polonia Cina Uzbekistan giungevano quei soffi, ma da profondità nascoste nei corpi di uomini e donne e da lì risalenti a ritroso per lunghi cammini fino all'origine del mondo, quando le cose si svegliano e pulsano chiedendo di esistere nel suono materno che le dice. Conoscevo ormai più di venti lingue e in quel parlare ininterrotto mi annegavo, libero da me stesso, affollato nell'apparente solitudine, errante in un perenne sogno di anarchia e affrancato dal nome e dalla carne, e come avessi venti vite o mille, tanti erano i corpi e le esistenze abitati e rivelati dalle voci in cui mi mescolavo, riconoscente... mentre andavo scoprendo risonanze inattese, un accordo tenuto segreto a noi uomini iracondi.
Tutte le esistenze si rispondevano, come frammenti di una melodia in cui l'intera vita compatta si rivela, canto remoto inascoltato, se non a volte nel riso che visita il bambino nel sonno, se non in quel mio bracconaggio appassionato... su quella spiaggia bianca dove camminavo raccogliendo relitti legni levigati avanzi, ogni reliquia una parola del poema originario, ed era così semplice afferrarlo, bastava andare sotto il cielo e umilmente chinarsi nella sabbia bagnata. Ed anche se la lingua mi era ignota era quel non paese di soffi e lampi di sonorità che cercavo, la spiaggia che non sembrava finire all'orizzonte ma... no, ecco che sembrano tornare da sfinteri irritati, maligni, feritoie, e mi si apre la bocca come fosse uno spacco screpolato una ruga un taglio dai bordi indistinti, ecco - ma pure essendo io questa meraviglia del mare rossolilla - qui urla, rossolilla urlato e non saprei dire il perché della foga o rabbia, le parole ne sfiatano come getti di gas da corrose tubazioni - nuovo blu inghiottito scampato a così grande pericolo, ecco che mi spunta dalla bocca una tal bambinella col suo vestitino marrone grinzoso - questa bocca che non può riposare, quest'orecchio che non vuole zittirsi...
Ma dire certe cose è un'indecenza, un brodo spesso che mi s'incolla vergognoso al corpo ribollendo qua e là, sibili e squarci su una coscia, alla nuca, nel mezzo della schiena...
E io che avevo scelto di tacere, quasi cieco e inconoscente e con mente ammutolita come per disporsi a una preghiera, nel silenzio ascoltare e sparire nella terra, nelle voci e nei ritmi ricomposti. Si poteva vivere, giacere, in quel non paese dove si scorda la ferita - il tradimento? - corpo senza passato, zeppo dei suoni dell'universo, del tumulto e del bisbiglio, dell'umile sostare dell'albero che guarda al golfo immenso sotto sé, della zolla fangosa che impercettibile scivola e si sfalda, di strepiti sordi esplosioni... di voci umide, ventose, voci d'acqua, di animali nascosti e braccati, di mille cose e avventure disciolte nell'incessante melodia.
E nessuno a spiarmi, non avrebbero più chiamato la polizia per portarmi ancora una volta in Rue de Bourgogne, al commissariato, e poi subito all'infermeria speciale, perché quel commissario ormai non mi voleva più vedere, ancora lì, con le tasche piene di carta e nella bocca parole straniere che lui non capiva. Fuggitivo, introvabile, avrei potuto sottrarmi, così da zittire chi andasse dicendo che avevo vissuto, che quello era stato il mio nome, quella la donna che mi aveva abbandonato, quelli gli occhiali le giacche sfondate i poemi presuntuosi... ecco, ritornano, approfittando della più piccola crepa, chi l'avrebbe detto quelle mattine, due ore prima dell'alba, quando tutto d'improvviso taceva e nel silenzio del cielo sopra i tetti la mia testa continuava a risuonare, ma di bisbigli ritmati, accenti, scomposizioni infinitesime di sillabe, e tutto era perfettamente chiaro, comprensibile, e assoluto come la luce che ogni volta risaliva e niente sembrava preparare la catastrofe imminente, del ritorno alla vita rumorosa con i suoi falsi drammi recitati a piena gola... tutto aspettavo, ma non perdìo queste voci di dissesto, furenti, che un dio maligno, illividito forse per l'assenza, continua ad inviarmi, e sanno tutto, loro, si presentano per nome - col vestitino grinzoso non più stiratello e un fiocchetto azzurro appuntato salvato - faresti meglio, oh! se ogni tanto ti uscisse qualcosa di vero, il fiocco era grigio e poi la bambinella non è tua, a malapena te l'hanno imprestata quegli altri, i santi del piano di sopra - come vecchie conoscenze sibilanti per la rabbia, voci di avvoltoio affollate nella fronte e dentro gli occhi, dovrei forse scavarmi un buco e sperare che escano fuori per sempre come getti di vapore da una fogna straripante - e la rivogliono indietro tra un'ora - mi faccio allora un cappello di piume rosse e verdi un pince-nez e una dentiera di piccole strisce d'avorio, aguzze, e non mi venga incontro neanche uno di quei salvatori usciti dal branco di cani e di scimmie, salvagione di zotici, infelice samaridio, disamaro
...non uno che mi tocchi la nuca con le dita e mi soffi nelle orecchie, a liberarmi nel silenzio



Mont a ra mad atao? Me zo skuiz. State sempre bene? Sono stanco